Giorni perduti (1945)

Elemento singolare nella filmografia di Wilder, è un ritratto audacemente espressionista dell’alcolismo, che ne offre una delle prime autentiche rappresentazioni, sottolineando con estremo realismo lo squallore e la brutalità di uno strumento che fino ad allora era associato all’evasione, al divertimento e al lusso. Prima di allora l’alcolismo nei film non era mai stato mostrato come una malattia, che può distruggere la vita. Gli ubriachi erano sempre stati dipinti come personaggi divertenti, buffi, spesso ridicoli, e a volte portatori inconsapevoli di quelle verità che solo l’alcol riesce a tirar fuori. Giorni perduti, invece, si svolge come un thriller noir, pieno di ombre minacciose, e la storia si prende talmente sul serio che non c’è spazio per il ridicolo.

Essenzialmente, sono cento minuti in cui il protagonista, uno scrittore in crisi, se ne va in giro da un bar all’altro, cercando inutilmente di nascondere la sua condizione, occultando bottiglie di liquore nei nascondigli più improbabili, e raccontando bugie su bugie per sfuggire al controllo della fidanzata e del fratello, che vorrebbero aiutarlo. Il film lo segue durante un lungo weekend in cui, rimasto solo dopo essersi liberato dei suoi insopportabili angeli custodi, si lascia andare senza freni al bere, arrivando inesorabilmente a toccare il fondo. Il film cerca poi di spiegare come sia arrivato a questo punto, attraverso una serie di flashback che ci mostrano gli impulsi più oscuri del protagonista.

Attorno a questa figura centrale, i personaggi si dividono in maniera un po’ stereotipata tra chi mostra indifferenza per il suo problema, e anzi è ben felice di prendere i suoi soldi e versargli da bere, e chi invece lo disprezza e prova repulsione per la sua condizione. Fanno eccezione il fratello e la fidanzata che cercano in tutti i modi di aiutarlo, ma in maniera un po’ ingenua finiscono per credere alle sue false promesse e farsi ingannare. La sceneggiatura è curata da Wilder stesso, in collaborazione con Charles Brackett, e questo significa che il protagonista si rivela un ubriaco insolitamente lucido e articolato nel parlare, anche perché dopo tutto è uno scrittore: bicchiere dopo bicchiere diventa sempre più chiaro che quest’uomo beve per tirarne fuori un libro, sia come fonte di ispirazione sia come stampella per una zoppicante autostima.

La sua vita è costellata di frustrazioni e delusioni: è uno scrittore che riesce a scrivere solo quando è ubriaco, ma in realtà poi è troppo ubriaco per scrivere. Il film ce lo mostra mentre nella sua disperazione fa di tutto per procurarsi i soldi per bere: arriva a rubare la borsa di una donna in un ristorante e come ultima possibilità cerca di vendere la sua macchina da scrivere. È interessante seguire il parallelo che si instaura tra la progressione del protagonista e quella della sceneggiatura, perché la storia è scritta in modo da poter andare in direzioni diverse, come accade spesso nei film di Wilder.  Il percorso del protagonista va chiaramente verso il peggio, sembra non esserci salvezza, ma non c’è alcun tipo di certezza sull’esito finale.

Questa ambiguità non sorprende, perché spesso nei film di Wilder la storia appare come una miscela di commedia e noir, in cui in ogni momento si può passare da un genere all’altro. Il regista era determinato a rendere il film quanto più realistico possibile, per questo la maggior parte delle scene in esterno sono state girate a New York, alcune addirittura con una telecamera nascosta, in modo da filmare le reazioni dei passanti, ignari che l’ubriaco di fronte a loro fosse in realtà Ray Milland.  Il direttore della fotografia, John Seitz, lo stesso de La fiamma del peccato e Viale del tramonto, fa un ottimo uso della luce e soprattutto delle ombre, in particolare nell’impressionante sequenza in cui il protagonista è vittima di allucinazioni da astinenza.

Anche la colonna sonora, scritta da Miklós Rózsa, autore tra l’altro delle musiche di Io ti salverò e Dietro la porta chiusa, contribuisce a rendere l’atmosfera inquietante e a portare lo spettatore a immedesimarsi con l’incubo del protagonista. Prima di questa pellicola, Ray Milland era conosciuto solo per commedie leggere, era il classico ragazzo simpatico e spensierato, perciò il pubblico avrà inizialmente faticato ad abituarsi all’alcolizzato cupo e problematico che interpreta qui. Un po’ come quando Tom Hanks ha interpretato Philadelphia. Eppure è stata una scelta vincente, e lo dimostra l’interpretazione di Milland, premiata con l’Oscar: sudato e tremante, è un uomo in preda alla paura, che finisce per annegare la sua parte migliore un bicchiere alla volta.

È questo che Wilder voleva mostrare: le conseguenze distruttive della dipendenza, che porta rapidamente dall’euforia del primo bicchiere alla disperata ricerca del successivo, lungo una strada buia e in vertiginosa discesa. E nonostante il finale consolatorio, imposto dalla produzione, questo film rimane ancora oggi un atto d’accusa potentissimo contro ogni tipo di dipendenza.  

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