La fossa dei serpenti (1948)

Può essere difficile per un pubblico moderno comprendere a pieno la portata rivoluzionaria di questo film, perché la malattia mentale e gli ospedali psichiatrici sono stati più volte protagonisti di film famosi. Basta pensare a Qualcuno volò sul nido del cuculo, o il più recente Follia, che hanno ampiamente mostrato gli aspetti più oscuri di certi ospedali, più simili a luoghi di detenzione e repressione che di cura. Ma quando uscì La fossa dei serpenti, nel 1948, era il primo film ad essere interamente ambientato in quello che allora era conosciuto come manicomio. Hitchcock aveva utilizzato la psicoanalisi tre anni prima, facendone un elemento di contorno in Io ti salverò, ma questo film fa della pazzia e della sua cura le vere protagoniste.

L’incipit è sorprendentemente moderno per un film così datato: ci presenta Virginia, la protagonista, immersa in un dialogo all’apparenza banale con un’altra donna, che le dice di essere preoccupata per lei. Sono sedute su una panchina, a prima vista libere di chiacchierare tranquillamente, ma poco dopo le due donne vengono invitate ad unirsi ad altre donne, in fila per entrare in una costruzione che ha le sbarre alle finestre. Si tratta forse di una prigione? Il pensiero turba Virginia, che comincia ad agitarsi. A quel punto le vengono incontro due uomini, che lei non sembra riconoscere: uno è il dottor Kik e l’altro è Robert, che afferma di essere suo marito.

Mentre viene portata via, Virginia sembra ricordarsi di essere effettivamente in prigione, per fare ricerche per un romanzo. A questo punto lo spettatore dovrebbe aver messo insieme i pezzi ed essersi reso conto che Virginia è una paziente ricoverata in manicomio, e che le sue condizioni sono abbastanza gravi da non riuscire nemmeno a riconoscere un medico che vede ogni giorno. Il modo in cui è arrivata lì e soprattutto il motivo, nonché il processo della sua cura e il possibile recupero sono gli argomenti della narrazione. Sarà il dottor Kik, attraverso il trattamento psicoanalitico, a svelarci i retroscena che si nascondono dietro la follia di Virginia.

Dal punto di vista cinematografico, il regista alterna la realtà drammatica del manicomio e dei trattamenti violenti a cui vengono sottoposti i pazienti, a numerosi flashback sul passato felice di Virginia, utilizzando il contrasto per sottolineare l’orrore dell’ospedale psichiatrico. Ci sono alcune sequenze particolarmente drammatiche, come quelle in cui vediamo praticare l’elettroshock, allora comunemente utilizzato sui pazienti, o quelle in cui i ricoverati si ammassano come un insieme scomposto, assediando Virginia e soffocandola metaforicamente con le proprie follie.

La maggior parte del personale dell’ospedale è scortese e irritante, molti medici sono crudeli e prescrivono regolarmente trattamenti di elettroshock perché sono il rimedio più rapido per sedare i pazienti. Sono scene che noi, spettatori moderni e smaliziati, abbiamo già avuto modo di vedere, ma per il pubblico dell’epoca dovevano costituire un’assoluta e sconvolgente novità. E’ chiaro l’intento didascalico del film: il punto principale su cui si insiste è l’importanza del trattamento psichiatrico rispetto a quelli punitivi, di natura più strettamente corporale.

Potrebbe sembrare strano adesso, ma era un’idea relativamente nuova negli anni ’40. Allora si pensava di curare i malati di mente attraverso interventi violenti come l’isolamento, l’elettroshock e altri trattamenti che spesso erano vere e proprie torture. Il film, invece, suggerisce l’importanza della terapia psicanalitica, e si comprende facilmente perché sia considerato un film epocale, anche se ora può apparire datato. Tutti i film che affrontano realtà problematiche, relative a un determinato periodo storico, con il tempo perdono parte del loro impatto iniziale.

Pensiamo ad esempio a Philadelphia: quando uscì fece scalpore ed emozionò il pubblico in un modo che lo spettatore moderno fa fatica a comprendere, e tra qualche anno sarà solo la testimonianza di un periodo oscuro della nostra storia che pochi ricorderanno. Ma rimane comunque un film emozionante e coinvolgente, ben diretto e soprattutto ben interpretato. Allo stesso modo, La fossa dei serpenti va considerato un’istantanea dei tempi, e come tale è prezioso anche se invecchiato.

Inoltre l’interpretazione di Olivia De Havilland nei panni della protagonista è fenomenale, dimostra tutto il talento nascosto di questa attrice più nota per ruoli insulsi e romantici, come la Melania di Via col vento. Qui l’attrice si impegna con convinzione a rappresentare tutte le sfaccettature della follia, passando in poche inquadrature dalla preoccupazione all’allegria, dalla confusione all’incertezza e poi di nuovo all’apprensione, dalla consapevolezza spaventata all’ostilità rabbiosa, fino alla rassegnazione. Il tutto in maniera sottilmente sfumata, senza esagerazioni di alcun tipo, sia nelle espressioni del volto, sia nel linguaggio del corpo.

Il resto del cast sinceramente non è niente di particolare: Leo Genn e Mark Stevens sono personaggi senza volto, che si limitano a ricoprire i ruoli necessari del film senza aggiungervi nulla. Così anche le infermiere sono tutte banalmente uguali e prive di profondità, mentre le pazienti dell’ospedale rispondono agli stereotipi dell’epoca su questo tipo di patologie. Solo la prova della De Havilland ha resistito al passare del tempo. Il resto del film è invecchiato, perché l’argomento non è più controverso.

Rimane comunque un’opera ben fatta e avvincente, una delle migliori regie di Anatole Litvak, insieme a Il terrore corre sul filo, dello stesso anno. E dimostra che Hollywood poteva, in rari momenti, allontanarsi dai suoi stereotipi commerciali e affrontare argomenti audaci.

16 pensieri riguardo “La fossa dei serpenti (1948)

      1. Troppo buona . 🙏🌹Ti auguro ogni bene e spero con sincerità del cuore che il lavoro certosino che ci metti in questo splendido blog ..sia riconosciuto da tanti . Perché merita. La memoria storica (come nel tuo caso la riscoperta di assoluti capolavori) va aiutata e propagata. Brava 👏

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  1. non conoscevo – o non mi ricordavo di – questo film, ma sembra molto interessante; poi lei proprio non l’avevo riconosciuta!

    invece il mio prof dice proprio che il modo migliore per rendere vecchio un film è renderlo documento di tot anni per costumi espliciti o tecnologie; quanto vivrà ancora di rendita il primo Avatar?

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